I Sogni di Vittorio Corcos alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma

A cavallo fra il XIX e il XX secolo la GNAM – Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma –  si arricchì di nuove opere, fra le quali Sogni, tela di grande formato del pittore livornese Vittorio Matteo Corcos (1859-1933), molto conosciuto e assai apprezzato (ai suoi giorni come ai nostri) per le sensibilità, maestria e aderenza al vero con le quali dipingeva i ritratti di donne e uomini, perlopiù prestigiosi membri dell’alta società (italiana e internazionale) o anche figure appartenenti a ceti meno elevati.

Roma, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea. Vittorio Matteo Corcos, Sogni [Foto: Wikimedia Commons]
Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea. Vittorio Matteo Corcos, Sogni
Lo stile pittorico del Corcos, formatosi fra Firenze, Napoli e la Parigi fin de siècle, presenta pennellate veloci e sicure, dai colori sia tenui che brillanti; estremamente vive e realistiche sono la resa fisiognomica ed espressiva dei volti, la restituzione quasi tattile delle qualità degli oggetti e degli elementi naturalistici, e persino le espressioni (se così si può dire) degli animali, quasi il pittore fosse intento a ritrarre uomini, cose ed animali fotografando piuttosto che dipingendo (la tecnica della fotografia nasceva infatti prima di Corcos, nel 1834, e fra diffidenze ed entusiasmi, già era diventata punto di riferimento e strumento di lavoro anche per  i pittori). Quasi fotografici, inoltre, sono il taglio (verrebbe da dire “l’inquadratura”) e il realismo dei ritratti e delle scene di vita quotidiana che Corcos dipinge, tanto efficace è l’immediatezza con la quale il pittore sa restituire allo sguardo dello spettatore la verosimiglianza del dato reale, riprodotto fin nel dettaglio, e le freschezza e fugacità del momento di vita vissuta.

Troviamo testimonianza di questo talento in una delle sale del secondo piano della GNAM, dove su una non grande parete campeggiano una fanciulla e i suoi Sogni, come recita il titolo del quadro dipinto dall’artista toscano nel 1896. È il ritratto di Elena Vecchi, figlia dello scrittore Augusto Vecchi. Ma in effetti potrebbe trattarsi di una qualsiasi altra giovane donna, evidentemente appartenente a un ceto sociale elevato, poiché sfoggia un bell’abito di elegante fattura e, al contempo, lo sguardo sicuro e a testa alta di una donna che può concedersi la libertà di leggere (ricordiamo che siamo nell’Italia di più di un secolo fa…), per di più in autonoma solitudine.

L’elegante fanciulla siede su panchina collocata a ridosso di una semplice casa, della quale vediamo solo una porzione di parete con finestra. La ragazza ha un’espressione seria ma non triste, pensosa ma non turbata; le sua gambe sono accavallate, in una postura comoda e disinvolta, certamente non da ritratto ufficiale. Proprio tale atteggiamento (non usuale per un pubblico spesso assuefatto alla sola ritrattistica ufficiale) e il dettaglio dei capelli leggermente scompigliati e non ben acconciati suscitarono le perplessità di parte della critica, non sempre incline ad accettare il nuovo e l’anticonvenzionale.

La donna sembra guardarci dritto negli occhi, quasi come se puntasse lo sguardo verso un obiettivo di macchina fotografica. A nostra volta noi spettatori osserviamo il quadro i cui dettagli affiorano perfettamente bilanciati nel loro insieme: la  superficie scabra dell’intonaco dell’edificio, il selciato grezzo della strada proprio sotto le lucide scarpe della dama, l’elegante panneggio della verdeggiante veste che ricade morbido tanto nelle maniche a sbuffo quanto nell’ampia gonna, l’intreccio della paglia del cappello in evidente pendant con la veste, la punta bianca dell’ombrellino e i libri gialli, le spine del ramo che chiude il quadro in alto, a mo’ di sintetico sipario, e il fogliame sulla strada nella parte bassa del dipinto.

Piccoli indizi e chiari elementi, pertanto, ci rivelano lo stato sociale alto della protagonista, che certamente immaginiamo come una colta lettrice dei libri poggiati sulla panchina (e non a caso si trattava della figlia di uno scrittore).

Una luce omogenea avvolge l’immagine, tutto gli elementi cromatici e luministici sono in equilibrio, la nostra attenzione, prima concentrata sul singolo dettaglio, si lascia poi coinvolgere dall’atmosfera di insieme, quasi invogliata ad entrare nella personalità della figura ritratta, che chissà cosa sta sognando.

Con il suo sguardo sicuro ma anche discreto la donna ci rivela qualcosa di sé, ma non troppo. Del resto è proprio nell’atmosfera di sospensione e di una mancata rivelazione che risiede il fascino di questa opera. Nella curiosità, destinata tuttavia a restare insoddisfatta, che la donna suscita nello spettatore. Probabilmente non ci svelerà mai, infatti,  la labile e sfuggente materia di cui i suoi sogni sono fatti, per ricordare le parole di William Shakespeare.

[Chiara Morabito]

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