Il coltello che non taglia #Museodelviaggio

Coltello da polenta [CC BY NC SA]Si era sentita proprio una stupida.  Senza mostrare di distogliere gli occhi da quello che stava facendo, apparentemente indifferente a qualunque fosse stata la sua reazione,  lui, invece, la stava guardando di sottecchi e forse anche un po’ divertito dalla sua ingenuità. Voleva darle tempo per godere del suo imbarazzo. Forse. Forse però era il suo ritmo naturale, il tempo lento del salire un passo dopo l’altro, del raccogliere gli attrezzi, pochi, per metterli via ognuno al suo posto, con rispetto e nell’ordine migliore che era diventato quello abituale. Il tempo paziente dell’aspettare. Le domande e le risposte.

Qualche giorno prima, durante le ferie estive, lei aveva scelto, senza nessuna esperienza, di fare quella vacanza camminando per sentieri, segnati ben inteso, lungo le cosiddette Alte vie.  Si era messa sulle spalle uno zaino, con troppe cose inutili dentro, e aveva preso un treno per Pont-Saint-Martin. Dalla stazione, tenendo per mano sua figlia, era salita verso il ponte che dà il nome a quel paese valdostano. Lì si era fermata a guardare lo scorrere poco più in basso della Dora Baltea. “L’acqua va rapida – pensò – ed io ci butto dentro anche la mia di fretta”. Così aveva cominciato, un passo dopo l’altro, a cambiare respiro.

Dopo tanti anni non ricordava più il nome della località a cui portava quel sentiero. Forse se avesse riguardato qualcuno degli appunti che prendeva durante i suoi viaggi. Oppure le fotografie. Le diapositive, ne scattava parecchie allora. Avrebbe potuto cercare fra i materiali informativi più diversi che conservava in modo un po’ maniacale e che di tanto in tanto cercava inutilmente di riordinare. Ma non lo fece. Non le era sembrato importante. Ricordava così bene quel sentiero che non lo considerava anonimo neppure senza un nome. “I nomi a volte confondono”, le venne da pensare. Un ampio stradone più che un sentiero, che saliva a tratti quasi in piano. Sulla sinistra in forte pendenza un sottobosco poco praticabile ombreggiato da qualche albero più alto. Un paesaggio ancora di mezza montagna molto diverso dagli alpeggi che risuonavano dei campanacci delle mucche al pascolo che avrebbe incontrato nei giorni successivi. E per arrivare ai paesaggi aspri e rocciosi dove la linaria alpina si accontenta di un crepaccio, lei e la bambina avevano davanti ancora diverse salite e qualche affanno.

Coltello da polenta [CC BY NC SA]Aveva scelto quel coltello con la testa e il collo di un cavallo visti di profilo, intagliati nell’impugnatura. Subito le era venuto in mente il cavallo con cui Ulisse aveva ingannato i Troiani. Forse c’era una somiglianza tra il modo in cui quell’artigiano aveva dato forma e tratteggiato l’espressione del cavallo e certe figure che aveva visto riprodotte sui libri delle medie. Poteva anche darsi che avessero sfogliato gli stessi libri, le era sembrato un uomo all’incirca della sua età. Aveva cominciato a raccontare alla figlia di quell’astuto eroe e del suo insidioso stratagemma. Di tanto in tanto, soprattutto durante le soste, bisognava farle dimenticare la fatica distraendola in qualche modo. Aveva solo nove anni.

Nella cesta c’erano altri oggetti di legno, piccoli utensili di uso quotidiano, lavorati da quel silenzioso artista di montagna che se ne stava seduto sul ciglio di un sentiero anche poco frequentato. Lei aveva preso in mano il coltello senza alcuna esitazione nella scelta.

Se lo era guardato e rigirandolo aveva scoperto che sull’impugnatura, piatta, il profilo del cavallo era intagliato su entrambi i lati con sguardo fiero e portamento coraggioso. No, quello non era il massiccio cavallo di legno che era servito per  espugnare Troia. Era il cavallo di un condottiero, uno di quei cavalli famosi diventati leggenda che riesci a immaginare solo al galoppo con la criniera al vento.  Aveva passato le dita sugli intagli e sulla lama affatto tagliente. Si era domandata a cosa potesse mai servire un coltello completamente di legno che non tagliava. Non riuscendo a pensare ad altro che a un uso puramente decorativo, che ai suoi occhi lo rendeva poco interessante, ma anche improbabile, si era infine decisa a chiederglielo. Ma quello era rimasto muto come se si aspettasse che fosse il coltello a rispondere.

Chissà se andava nei mercati e nelle fiere a portare i suoi lavori. Cosa avrebbe mai potuto guadagnare lì con qualche vendita occasionale a rari passanti. Probabilmente viveva di altro e quello era solo un passatempo, una passione magari. Forse il margine del bosco era il posto dove veniva a intagliare più che a vendere. Anche a lei piaceva fare il suo lavoro in un ambiente tranquillo. I suoi pensieri, sebbene solo pensieri, stavano diventando di una curiosità invadente.

“Serve a tagliare la polenta“. La risposta dell’artigiano era arrivata a far tacere domande indiscrete. Giusto in tempo a spezzare il filo su cui la fantasia di lei si sarebbe incamminata come un funambolo.

“Ma certo – aveva realizzato –la polenta valdostana”! Ne aveva già assaggiata più di un piatto in quei giorni. Aveva guardato le mani che continuavano a muoversi con gesti precisi, la testa appena inclinata sul legno che prendeva forma. Le era sembrato di intravedere una piega divertita sulle labbra.

E si era sentita proprio una stupida a non averci pensato.

Alla fine della vacanza, il coltello era arrivato a Roma insieme a lei, nello zaino. Aveva trovato posto in cucina dentro un barattolo già affollato da altre posate meno nobili. Veniva tirato fuori soltanto in inverno quando c’era bisogno di affettare la polenta. Come quella sera. Ed ogni volta, come quella sera, la tavola si profumava di un ricordo intimo che solo Lea riusciva a sentire mentre fuori dalla finestra vedeva sparire le case e le strade.

Coltello da polenta [CC BY NC SA] Coltello da polenta [CC BY NC SA]

[Testo e immagini inviati da Clara Stroppiana il 28 maggio 2020, CC BY NC SA]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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