Estate 1976, Salto di Quirra, Sardegna di sud-ovest. Dopo una strada asfaltata che correva in una fitta macchia mediterranea, abbastanza fitta ed abbastanza alta da non farti capire dove fossi veramente, e dove ogni due o tre chilometri incontravi un dosso così profondo e così lungo che la macchina si fermava quasi, per affrontarlo; e dopo una casa colonica abbandonata, con un aereo militare a pochi metri dalla porta d’ingresso, appoggiato su un fianco, su un’ala spezzata, finalmente arrivavi sulla strada bianca, che sarebbe finita qualche centinaio di metri più avanti: e allora, tra lentischi e ginepri e mirti, ti si apriva sulla destra una spiaggia lunghissima, stretta, ingombra di una soffice, odorosa ed altrettanto lunga trapunta di alghe. Rocce di porfido rosso chiudevano la spiaggia sulla sinistra e dopo quel gradone di alghe, la spiaggia di sassolini piccolissimi cedeva via via il posto alla sabbia, digradando lievemente verso l’acqua, verde e trasparente.
A quel tempo si potevano montare piccole tende per fermarsi a vivere in quel paradiso: certo, i militari sarebbero venuti, imbracciando il mitra, a controllare i nostri documenti, ma la nostra innocuità ci permise di restare.
Portammo a casa queste brillanti piccole uova di roccia, che ci hanno sempre ricordato una rivelazione inaspettata, un’Italia meravigliosa e selvaggia, non ancora invasa da un turismo ingordo e senza rispetto.
Abbiamo imparato, noi milanesi convinti, ad amare la Sardegna in modo profondo e viscerale, scegliendo di tornarci per sempre, fino a quando la vita ce lo avrebbe permesso.
[Testo e immagine inviati da Monica Nobili il 22 aprile 2020, CC BY NC SA]